Recentemente la Federal Reserve, attraverso il suo Presidente, ha comunicato che la funzione di reazione rispetto al tasso di inflazione si è modificata. I tassi di interesse di policy verranno manovrati per favorire l’uscita dallo stato di deflazione in cui sii trova l’economia americana.
Come si sa, e come ci ha insegnato I. Fisher con un suo famoso articolo del 1933 (Debt and deflation), la deflazione fa male a chi è molto indebitato e alla domanda di beni di consumo e di investimento. La deflazione tende pertanto a coniugarsi con la stagnazione. Dobbiamo pertanto uscire dall’attuale stato di deflazione che si trascina da anni e creare le condizioni per la ripresa dello sviluppo e dell’occupazione.
Un problema analogo lo ha la Banca Centrale Europea che da anni non riesce ad uscire dalla trappola di una deflazione mediamente inferiore al 2%. Un problema quindi generale che interessa le due Banche Centrali più grandi del mondo.
Ma la politica monetaria è capace di farci uscire dalla deflazione?
Gli schemi tradizionali o aggiornati alla Friedman della teoria economica ci direbbero di sì. Ma attualmente appare assai difficile perché la liquidità abbondante creata dalle Banche Centrali non arriva al settore reale dell’economia, influenzando i prezzi dei beni e dei servizi, ma si ferma prima influenzando i prezzi delle attività finanziarie. Lo vediamo con i prezzi azionari di borsa che sono saliti moltissimo in questi ultimi tempi. Prendiamo, ad esempio, l’indice Dow Jones che nelle ultime 52 settimane è passato da un minimo di 18.124 ad un massimo di 29.569. Un variazione quindi del 63%, Per non parlare della capitalizzazione di borsa di alcune multinazionali come Apple che ha superato i 2 mila miliardi di dollari, pari a 1.724 miliardi di euro ai tassi di cambio correnti. Un valore superiore al prodotto interno lordo (PIL) dell’Italia. Il rapporto prezzi/utili per azione di Apple si avvicina a 37.
Ma la stessa cosa la vediamo osservando i prezzi dell’oro che nell’ultimo anno sono saliti del 30%, arrivando a 2.000 dollari all’oncia. Per il prossimo anno si prevede per l’oro un ulteriore aumento del 30%, ma c’è chi pensa che arriverà addirittura a 3.000 dollari. Naturalmente tutto questo è determinato anche dallo stato di grande incertezza che regna nel mondo, aggravato dalla pandemia da coronavirus.
Quindi una rivoluzione sul lato delle politiche monetarie, ma anche sul lato delle economie reali.
La rivoluzione sul lato delle economie reali è conseguenza dello spettacolare progresso tecnico che determina aumenti della produttività fino al 30%. Quindi un eccezionale aumento dell’offerta di beni e servizi che trova difficoltà ad essere assorbito dalla domanda, soprattutto se la distribuzione del reddito tra i fattori della produzione non è adeguata. E’ quello che è successo agli inizi del novecento del secolo scorso con l’entrata della produzione in serie delle automobili (fordismo). Ford allora portò avanti con determinazione l’aumento dei salari degli operai per consentire loro di comperare le automobili, i cui prezzi naturalmente scendevano anche a causa del progresso tecnico, Come si ricorderà, questa politica di Ford determinava un contenimento della distribuzione dei dividendi che sollevò le proteste dei suoi soci Dodge. Pertanto, quando c’è un forte progresso tecnico con eccezionali aumenti di produttività, il sistema per non entrare in squilibrio deve assicurare una adeguata distribuzione del reddito tra salari e profitti. Al raggiungimento dell’equilibrio concorre anche una tendenziale diminuzione dei prezzi.
La rivoluzione dell’economia digitale ci ha fatto passare ai rendimenti crescenti di scala e quindi ad un eccesso di offerta. I costi marginali tendono ad essere sempre più piccoli e quindi stiamo assistendo ad caduta tendenziale dei prezzi. Contemporaneamente la distribuzione dei redditi si è spostata sempre più a favore dei profitti con una riduzione dell’incidenza dei salari. Uno squilibrio quindi tra domanda e offerta che si è tentato di fronteggiare in parte con un eccezionale sviluppo delle vendite a rate riguardanti i beni di consumo durevole e non. Vendite a rate che avvengono a tassi di interesse molto elevati e lontanissimi da quelli di policy praticati dalle banche centrali, intorno allo zero o addirittura negativi. Quindi altri squilibri con effetti collaterali negativi delle politiche monetarie attuate.
In questo quadro la deflazione sembra avere un carattere strutturale, contro cui le politiche monetarie possono fare poco o nulla perchè l’enorme liquidità creata non va verso i beni ma si ferma alle attività finanziarie facendone crescere in modo spettacolare i prezzi e alimentando bolle speculative.
In questa situazione è forse meglio adottare la regola di Friedman, o di Brunner, fare cioè crescere l’offerta di liquidità ad un tasso predeterminato o variabile entro un margine ristretto.
Giovanni Scanagatta
Roma, 14 settembre 2020